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Le recensioni sono l'equivalente di ciò che direi al bar con i miei amici. Niente di più niente di meno, l'opinione di un appassionato!

6/10

QUEER | 2024

Regia di Luca Guadagnino

 

ASPETTO L'OSCAR PER I COSTUMI

Guadagnino torna al cinema con Queer, film romantico, drammatico, d'avventura, che segue la vita di quello che si potrebbe definire una specie di poeta maledetto, William Lee (Daniel Craig). Scappato in Messico, Lee è un uomo afflitto da una forte solitudine, beve, si droga e ha chiare difficoltà nel rapportarsi con la società. Le sue tendenze sessuali lo rendono un facile bersaglio di pregiudizi e streotipi, tanto che gli unici amici (se così possiamo chiamarli) sono altri uomini omosessuali. Il film tende molto a mostrare questa bolla chiusa, tra locali e persone dello stesso orientamento. Tutto cambia quando Lee incontra Eugene Allerton (Drew Starkley), di cui si innamora perdutamente. Tra i due nasce un rapporto stranissimo, in cui non capiamo mai a fondo cosa Allerton desidera. Egli si mostra spesso disponibile alle advances di Lee, per poi cambiare completamente il giorno dopo. Quello di Guadagnino è un film che non mi ha convinto, in molti modi, a partire dalla narrazione stessa. Il film è diviso in atti, segnati con titoli di testa, ma per qualche motivo il primo atto dura quasi metà del film stesso, rompendo quello che per me è il concetto di divisione di atti. Sembra quasi che il film sarebbe dovuto durare molto di più e che gli atti successivi abbiano sofferto grossi tagli. Nonostante questo, la durata del film si è fatta sentire tutta, portandomi addirittura a chiedermi quando finisse invece di seguire la storia, cosa che odio. Lee cita spesso una pianta che provoca delle forti allucinazioni telepatiche, il suo obbiettivo è provarla. Verso metà film Lee e Allerton partono per andarne alla ricerca. Da qui per me si spezza qualcosa nel ritmo del film, specie una volta giunti nella foresta. Ogni sequenza mi ha lasciato con la stessa domanda: "E quindi?". Sento di non aver compreso a pieno come Guadagnino volesse trasmettere alcuni messaggi e morali che porta in gioco nel film. Ho trovato anche alcuni problemi nel montaggio/colonna sonora, specie in un momento cruciale, no spoiler, in cui Allerton si distende per dormire e vi è un momento importante nella crescita del personaggio. La bellissima colonna sonora entra al momento giusto, ma dopo pochi secondi la scena si conclude, proprio nel mentre lo spettatore comincia a prova empatia per quello che fino a quel punto sembra un guscio vuoto e manipolatore. Non mi hanno fatto impazzire i green screen frequentemente usati per invecchiare gli ambienti messicani, ho subito riconosciuto la maggior parte di essi. Daniel Craig come sempre si riconferma come uno dei migliori attori della sua generazione, versatile, intelligente, si presta ad ogni ruolo. Location e colonna sonora completano fantasticamente la scelta dei capi d'abbigliamento per cui, devo essere onesto, ho un debole. La fotografia spesso sorprende, altre volte è un pò blanda. Per concludere, questo "Queer" non mi ha molto convinto. Non conoscendo molto Guadagnino non so se manco degli strumenti per comprendere alcune scelte ma, anche dopo aver visto "Bones and All" ho provato la stessa sensazione, anche se il film mi piaque assai meno.

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8.5/10

L'UOMO CHE UCCISE LIBERTY VALLANCE | 1962

Regia di John Ford

 

"DIO HA CREATO L'UOMO, COLT LI HA RESI UGUALI"

"Dio ha creato l'uomo, la Colt li ha resi uguali". Questo era uno degli slogan di Sam Colt, creatore di uno degli strumenti più importanti del mito del western, ovvero la revolver Colt 45. Finendo di vedere "L'uomo che uccise Liberty Valance" ho per la prima volta sentito un Ford che non elogia questo motto, o meglio, non lo affianca alla giustizia (per quanto essa sia personale). La pellicola è ben diversa dal concetto di western che il leggendario maestro del cinema ha sempre trattato. Infatti, temi d'epicità e positività della frontiera del west Fordiana sono messi davanti alla realtà della civilizzazione, della legge, dello Stato. La fine del Selvaggio West, segnato dalla fatidica ferrovia, tramonta assieme alle figure più care alla frontiera: il cavaliere solitario, in questo caso Tom Doniphon (John Wayne); la ragazza di casa, Hallie (Vera Miles); il bandito che terrorizza la cittadina, Liberty Vallance (Lee Marvin) e i suoi scagnozzi (di cui uno è un giovane Lee Van Cleef). Tom Doniphon, tipico giustiziere John Wayneiano, si trova a confrontarsi con un fragile e intelligente uomo di città, Ransom Stoddard (James Stewart). John Wayne porta come sempre il suo storico ed epico personaggio arrivato dalla Monument Valley, spesso sporco di terra, ma non manca però di nuovi spunti che prima Ford non aveva esplorato. James Stewart come spesso fa nei suoi film, recita un'uomo pacato ed elegante, la cui vena mite è messa a dura prova dalla difficile realtà dei fatti. Edmond O'brien, che recita nel ruolo del giornalista, è un altra fantastica sorpresa, che soprattutto nella seconda metà del film porta avanti una bellissima recitazione teatrale. Ford intanto, sostituisce gli sconfinati paesaggi delle praterie con interni e città ricostruite in studio, facendo a pezzi il linguaggio visivo del western. Spesso le scene sono anche in notturna, illuminate con forti luci che creano affascinanti fasci di ombre nere. Ford in questo film però non si limita ad abbandonare la vecchia America del ovest per passare alla civilità moderna, come un rito di passaggio naturale, infatti critica fortemente entrambe le epoche e non manca a sottilineare la sfiducia nei politici, nello stato e nella burocrazia. Non intendo dare dell'anarchico a Ford, il film piuttosto spiega le difficoltà di un uomo d'onore a far valere se stesso in un complesso moto sociale, in cui ognuno sfrutta la propria posizione a proprio favore. Forse Ford sottolinea semplicemente che la pistola era il problema del west, intesa come strumento di violenza, ma che la sua scomparsa porta solo ad una nuova forma di essa, ovvero la politica corrotta. Ho apprezzato molto l'idea che Ransom si metta a insegnare a leggere a scrivere alle donne e bambini della cittadina. Chiaramente Ford fa notare come il ruolo sociale delle donne e degli uomini di colore stia cambiando (Ford è riuscito a non far sembrare John Wayne un razzista per almeno una scena). Lo fa però senza farlo sembrare un male, anzi, è forse una delle cose più positive del film.

SPOILER

Importante negli spoiler parlare dell'uso della violenza di questo film. Ford getta sangue come mai ha fatto. Ci sono svariate scene di crudi pestaggi, che visivamente lasciano grandi quantità di sangue e ferite. La violenza e la morte però vengono trattati in modo molto meno epiche rispetto ad altri film del passato: mancano aspetti fondamentali dell grammatica western. L'unica morte che vediamo su schermo è quella del bandito Liberty Vallance, che viene ucciso, per strada, di notte al buio. I suoi ultimi respiri vengono ripresi da lontano mentre collassa nella polvere della strada, non un accenno di musica, un primo piano, nulla. La morte non è epica, ne è trionfale. Nel caso di Liberty Vallance era pura difesa, sopravvivenza. Ford rimane a guardare senza battere ciglio, ma si rende conto della misera scena. Visivamente parlando è una pellicola molto ben riuscita, che strizza l'occhio ai "vecchi" film in bianco e nero, soprattutto ai Noir notturni. La morte del mito western è segnata infine dalla bellissima inquadratura di Sentieri Selvaggi, dove la donna guarda Wayne uscire dalla porta, guardando il futuro infinito delle praterie americane. In "L'uomo che uccise Liberty Vallance", questa viene riproposta, ma di notte, in un vicolo stretto di città, davanti a loro solo il buio. Il mito del pistolero giustiziere finisce qua.

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8/10

LA CITTÀ PROIBITA | 2025

Regia di Gabriele Mainetti

 

"MA BRUCE LEE MANGIA QUI?"

Gabriele Mainetti torna al cinema dopo il fantastico "Freaks Out" (2021) e devo dire che l'ho trovato informissima. "La Città Proibita" racconta l'intreccio tra Mei (Yaxi Liu) e Marcello (Enrico Borello), che si ritrovano coinvolti in una vendetta personale contro la mafia cinese, comandata da Wang (Chunyu Shanshan). Senza dire troppo, la storia non è delle più complesse di sempre e lascia molto spazio ai combattimenti e ai rapporti tra i personaggi, che nonostante siano su carta molto streotipati vengono piano piano conditi da fantastiche sfaccettature umane. Ho apprezzato l'utilizzo della cultura culinaria come mezzo di comunicazione tra Mei e Marcello. I combattimenti sono coreografati molto bene, aiutati da ottimi movimenti di camera e montaggio ben ritmato. Un problema che ho sentito è legato al personaggio di Annibale (Marco Giallini), o meglio del suo interprete: i dialoghi sono spesso inleggibili, soprattutto quando Giallini non alza la voce. Non so se l'attore abbia dei problemi di salute, quindi evito di criticare questa cosa, ma credo sia giusto appuntare questo problema. Le performance degli attori sono per lo più fantastiche, non ho adorato Borello e la mamma del suo personaggio, ovvero Sabrina Ferilli, che non credo fosse la giusta scelta per il personaggio, oltre a non essere proprio un'attrice di spessore. Il film poi è supportato da un'ottimo lavoro di audio e di colonna sonora (Fabio Amurri). Un prodotto del genere vive grazie al virtusismo tecnico sia appunto dell'audio, sia del visivo e Mainetti lo sa benissimo, curando infatti entrambi gli aspetti. Il film quindi è ben ritmato, ha una buona fotografia, buon suono e gli attori funzionano quasi tutti. Nonostante molti non sopportino il successo di Gabriele Mainetti, per gelosia o per ignoranza, credo sia giusto riconoscere i suoi meriti, dato che è uno dei pochi a far uscire film di genere in un paese che sempre di più sembra odiare la cultura cinematografica. Marinetti finalmente fa tornare quello che dovrebbere essere il cinema d'intrattenimento, ovvero  sì un cinema più leggero, ma anche ben scritto, fotografato e musicato. Basta con ste porcherie di cinecomics, rom-com idiote e commedie americane o all'italiana se vogliamo rimanere in patria. Il cinema non può fermarsi a queste quattro macchine di soldi, pensate ed eseguite con la più totale indifferenza e superificialità artistica.

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3/10

GRAND TOUR | 2024

Regia di Miguel Gomes

 

GRAND NOIA

Sono un gran amante dei film con ritmi lenti, scanditi da lunghe scene con montaggio minimalista. Adoro scoprire ogni elemento dell'inquadratura ed entrare ancora di più nell'ambiente. "Grand Tour", non mi ha dato questo effetto, anzi, mi ha riempito di una grande indifferenza, sia verso la trama e i protagonisti. Nonostante il film abbia delle buone carte da giocare: è girato in pellicola 16 mm, mix tra riprese documentaristiche e studio di posa, storia semplice; riesce a gettare nel fuoco ogni speranza nel giro di 25 minuti. Gomez per qualche motivo che nessuno, in modo razionale, può spiegare decide di ambientare la storia nel 1917 e poi tra una scena e l'altra inserisce riprese documentaristiche del 2022, con traffico di auto e grattacieli, portando lo spettatore in confusione. Tanto per cercare di dare altri stimoli sdubbianti al pubblico, si è deciso di inserire sequenze girate a colori. Questa scelta io ancora non ho capito a cosa, registicamente, si riferisca: l'utilizzo del colore è inconsistente, per nulla ritmato e non è associato ad nessun tipo di elemento ricorrente. Il senso di odio che questa decisione mi ha procurato è indescrivibile. Ho provato a leggere alcune recensioni di persone che hanno visto "Grand Tour", ma chi ne parla bene lo elogia a film anti colonialista, anti razzista e a parodizzazione dei film di viaggio degli anni '40 e '50. Trovo che se fosse questo il caso, il film non rende affatto giustizia a questi canoni. Senza fare spoiler, dopo 2 ore e 15 min di noia il film conclude in modo forzato se non completamente inutile. "Grand Tour" utilizza la maschera delle belle inquadrature e del fascino della pellicola 16 mm per vendere un prodotto che non ha coesione con se stesso, non ha obbiettivi ne di trama ne di posizione. Guardando i titoli di coda la mia collera è aumentata, rendendomi conto che il regista non è manco stato nei paesi che tanto descrive, si è infatti affidato ad un numero spropositato di troupè locali, che hanno girato contenuti documentaristici a giro per le città e foreste. La quantità insensata di scrittori/sceneggiatori, direttori della fotografia e chi più ne ha più ne metta, mi fanno credere che Gomez abbia dato a ciascuno un soggetto diverso e poi una volta sviluppata l'idea ha preso e creato un mischione di tutto, ad occhi chiusi. Per concludere l'ultimo lungometraggio di Gomez è un'accozzaglia superficiale, pretenziosa e confusionaria, che non porta a nulla, cominciando e passando per altro nulla.

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8/10

HOGAKE - OMBRA DI FUOCO (ほかげ) | 2023

Regia di Shinya Tsukamoto

 

IL FIGLIO DELLA GUERRA

Ancora una volta mi trovo a non conoscere un regista di cui adesso guarderò sicuramente la filmografia. Shinya Tsukamoto dal poco che so, è un regista giapponese conosciuto per i suoi film a medio basso budget. "Hokage - Ombra di Fuoco", è un film che mi ha colpito come poco immaginavo. Sono entrato in sala con poche aspettative, origliando una conversazione scopro che sembra che stia piacendo molto. Il film racconta gli effetti dei bombardamenti incendiari su di una cittadina giapponese, che ha raso al suolo l'intera area urbana e trasformato sogni e notti tranquille in incubi e notti insonne. Un'ombra che pesa sull'animo di tutti i personaggi che conosciamo, dal piccolo "Ragazzino" (un talentuosissimo Ouga Tsukao) alla ragazza che si prostituisce (Shuri). Il film è diviso in due atti, di cui il primo completamente confinato nella casa/locanda in cui la ragazza vive e il secondo, dove seguiamo il piccolo "Ragazzino", ingaggiato da un misterioso uomo per un lavoro, di cui non sa niente. Tsukamoto oltre a trattare in maniera bellissima la luce naturale e le scenografie, racconta eccellentemente tramite sguardi, suoni e veri e propri episodi di ptsd le condizioni dei personaggi. Devo dire che sono rimasto molto soddisfatto dalla performance del piccolo Ouga Tsukao, che porta in scena un bambino rimasto solo, dopo che la guerra ha portato via i genitori. Cerca di sopravvivere in qualsiasi modo, rubando cibo qua e là. Mano a mano che la storia si rivela davanti a noi, questo personaggio si trasforma, cresce e nonostante non abbia molti dialoghi, Ouga Tsukao ci dice tutto tramite le sue azioni e i suoi occhi. "Hokage..." è un film crudo, senza peli sulla lingua, la rappresentazione dello stato mentale e fisico dei giapponesi è terrificante e disumana. Spesso nel film sembra sentire il fuoco avvolgere ancora le anime dei personaggi. Ognuno di loro rivive quei momenti atroci e noi con loro sentiamo il calore dilaniare la nostra pelle.

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10/10

IL DESERTO DEI TARTARI (Le Désert des Tartares) | 1967

Regia di Valerio Zurlini

 

"UN FORTE CHE SI AFFACCIA SUL NIENTE"

Non conoscevo Valerio Zurlini, se non per il documentario "Ennio"(G. Tornatore), in cui il film viene citato. "Il Deserto dei Tartari" mi ha veramente sorpreso. Il cast a dir poco epico, composto da nomi come Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Giuliano Gemma, Fernando Rey, Jean-Louis Trintignan, Philippe Noiret, Max von Sydow e molti altri. La pellicola segue il giovane sottotenente Giovanni Drogo (J. Perrin), assegnato nell'enigmatico e misterioso avamposto di Bastiani, situato sulla frontiera dell'impero. La fortezza da sul deserto, rinominato Deserto dei Tartari dai soldati che negli anni vi hanno prestato servizio. I Tartari sono guerrieri di cui viene spiegato molto poco, solo che montano cavalli bianchi, hanno spade nere e sono avvolti da miti e leggende. Arrivato, Drogo fa conoscenza degli altri ufficiali e diviene un fidato e stimato tenente, passando poi alle cariche più alte. Nonostante Drogo spieghi che Bastiani non fosse la sua destinazione, ma che è stato accidentalmente stanziato lì, non riesce ad abbandonare più il posto, come alcuni dei suoi più anziani superiori. Sviluppa un certo rapporto di stima col vecchio capitano Ortiz (M. von Sydow), il quale da anni aspetta invano l'arrivo dei Tartari, ogni giorno, ogni mese, ogni anno. L'attesa del nemico invisibile cattura ben presto anche il giovane Drogo, rendendolo schiavo del tempo. Zurlini racconta il romanzo di Dino Buzzanti in maniera impeccabile, dalla regia, alla fotografia. La location principale del film, la città vecchia di Bam in Iran, è il sogno di ogni regista ed è quasi troppo bella per essere vera. Zurlini e il direttore della fotografia Luciano Tovoli descrivono con la macchina da presa in modo quasi romantico la bellezza della fortezza e della cittadella in rovina sotto di essa. Tra tramonti pittoreschi e piogge torrenziali, il dinamismo in location aiuta molto il film a non perdersi nelle sue lunghe due ore e mezza. La fantastica, malinconica, solitaria colonna sonora di Ennio Morricone eleva ancora di più lo spettacolo visivo della pellicola dando ancora più rilievo all'esistenzialismo trattato da Zurlini. Il motivetto mi rimane ancora in testa e sento tutte le emozioni che il sottotenente Drogo ha provato per tutti gli anni passati a guardare il niente più totale, aspettando un nemico invisibile. "Il Deserto dei Tartari" è un opera molto speciale, racconta di un attesa, che porta via ogni senso e speranza, tramuta la vita in mera esistenza. I Tartari sembrano dietro alle dune del deserto, sempre più vicini al forte, ma arriveranno mai?

PERCHÈ GUARDARE IL FILM

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7.5/10

MICKEY 17 | 2025

Regia di Bong Joon Ho

 

STARSHIP TROOPERS, SEI PROPRIO TU?

Avendo visto solo "Parasite", mi aspettavo un film molto più serio e cinico. Nonostante i valori e le morali di Joon Ho siano rimaste, "Mickey 17" è un film molto più leggero, con sfumature comiche e d'avventura. Il fantastico Robert Pattinson interpreta Mickey Barnes, un giovane che decide di scappare dalla terra, a seguito di grossi debiti, tramite il programma spaziale comandato dall'egocentrico politico fallito Kenneth Marshall (Mark Ruffalo). Non volendo Mickey entra a far parte del programma dei "Sacrificabili", ovvero un gruppo di esploratori che viene clonato tramite stampa ogni volta che la versione in vita muore. Da qui, si è esplora il lato disumano della vita che viene data a Mickey, i cui cloni vengono utilizzati in esperimenti barbarici, diventando un vero e proprio topo da laboratorio. Giunti sul pianeta di colonizzazione, gli umani si trovano dinanzi ad una specie aliena, con la quale Mickey involontariamente crea una connessione. Bong Joon Ho in questo film critica la politica moderna, strizzando particolarmente l'occhio all'attuale forma governativa degli Stati Uniti d'America. In effetti Kenneth Marshall (M. Ruffallo), oltre ad essere il nome più americano possibile, è chiaramente un Donald J. Trump dedito alla corsa nello spazio, per scopi di lucro si intende. Il suo personaggio è parodisticamente stupido e avvolte quasi incapace di formare una frase senza l'aiuto di sua moglie Ylfa (una bravissima Toni Collette), da notare il nome stereotipicamente tedesco. "Mickey 17" descrive in modo originale l'idea dello schiavo, della disumanizzazione di un essere umano, avendo esso capacità di rivivere ogni volta che viene brutalmente ucciso. Alla fine, Mickey 17 è il clone più sensibile e quello che si fa mettere i piedi in testa da tutti. Quando scopre che per un errore è stato stampato il successivo clone, Mickey 18, si trova a dover fare i conti con una sua versione molto più aggressiva e decisa. Molto intelligente la scelta del regista di avere sulla navicella della spedizione spaziale un corpo dedicato a documentare l'impresa. Una semplice ma molto efficace critica all'uso dell'immagine per scopi di propaganda, che mi ha ricordato molto "Fascisti su Marte". Per concludere, il film mi ha lasciato un ottima impressione, ma è lontano dalla maestosità di "Parasite". Ho apprezzato molto la colonna sonora di Eilam Hoffman.

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8/10

LO STRANIERO | 1967             

Regia di Luchino Visconti

 

"CHE IMPORTANZA HA?"

Meursault (M. Mastroianni) è un impiegato d'ufficio nella calda Algeri degli anni '30. Dopo aver ricevuto un telegramma dall'ospizio dove la madre è deceduta, Meursault va al suo funerale durante il quale però sembra non aver nessun tipo di sensibilità emotiva. Tempo dopo commette un omicidio, per il quale rischia la pena capitale e gli inquirenti concentrano l'accusa su questa mancanza di sensibilità. "Lo straniero", tratto dall'ononimo libro di A. Camus, descrive un uomo senza sentimenti, credenze e soprattutto senza speranze. Ogni azione di Meursault è un puro susseguirsi di eventi che gli capitano. Egli è un uomo che accetta la realtà per quello che è, senza tenere il peso dei sentimenti o dei desideri. La sua iconica risposta a Marie (Anna Karina) che gli chiede se prova dei sentimenti per lei: "Che importanza ha?". Questa è una risposta che Meursault usa spesso, fino all'ultimo, dimostrando quanto il suo senso della vita sia puramente materialistico e realistico. Gli stessi rapporti che ha sia con Marie che con gli amici è del tutto superficiale, basato esclusivamente sulla volontà altrui di avere tale rapporto. Visconti racconta Meursault anche con un semplice gesto che egli compie: nonostante il caldissimo sole e la temperatura alta, egli è l'unico che non tenta minimamente di proteggersi. Accetta semplicemente il calore. Altro punto in cui il film si sofferma è il Credo religioso. Esso viene usato spesso dagli inquirenti come forma perfetta d'accusa, visto che Meursault rifiuta di voler credere in qualcosa che non appartenga al semplice esistere e alla fine di tutto alla morte fisica. La pellicola è poi incorniciata da una fantastica fotografia firmata Giuseppe Rotunno, che spesso mette in scena dei giochi di luce favolosi e descrive i dettagli facciali, le espressioni dei personaggi in modo sublime. Purtroppo ci sono scelte che sporcano tutta questa bellezza, ad esempio l'uso ricorrente di un fastidioso crash zoom, il suo senso registico a me sfugge. Infine, è mio dovere ricordare il fantastico costume da bagno indossato da Mastroianni, che pare averlo rubato dalla borsa di qualche bagnante distratta.

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7/10

THE GORGE | 2025             

Regia di Scott Derrickson

 

"I MADE RABBIT PIE"

"The Gorge" è quello che definirei un ottimo film di intrattenimento senza pretese. Il film segue i due cecchini Drasa e Levi (Anya Taylor-Joy e Miles Teller), che si ritrovano a dover far da guardie su di una misteriosa gola tra le montagne di un paese non ben identificato. La nebbia perenne che esce dalla gola nasconde oscure e atroci grida di esseri che i due devono tenere chiusi là sotto, con ogni mezzo possibile. Nonostante le guardie non possano contattarsi, Levi e Drasa rompono il silenzio, cominciando pian piano a conoscersi. Sia Teller che Taylor-Joy portano avanti il film in modo eccellente, nonostante una sceneggiatura un pò superficiale e in certi punti con dialoghi direi forzati (film visto in lingua originale). Mi è piaciuto come il film affronta il segreto militare e politico nascosto nella nebbia. Nonostante l'uso ovviamente pesante della CGI si senta, non mi ha disturbato troppo. Il film ti fa calare nella storia e chiaramente non si prende fin troppo sul serio, creando delle atmosfere surreali e  artistiche. Considero infatti "The Gorge" una specie di favola del mistero, con al suo interno un ottima e sincera storia di amore. Bello l'uso delle poesie e citazioni ai precendenti guardiani della Gola.

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7/10

HANNO RUBATO UN TRAM | 1954             

Regia di Aldo Fabrizi

 

IL GIOCO E' GIOCO, IL LAVORO E' LAVORO

"Hanno rubato un Tram" è un'ottima e leggera commedia, firmata da Fabrizi, Vincenzoni, con la fotografia a sorpresa di Mario Bava e aiuto regia di un giovane e magro Sergio Leone, che fa anche da comparsa. "Hanno rubato un Tram" racconta delle sventure di un tramviere, Cesare Mancini (Aldo Fabrizi), il cui lavoro è disseminato di problemi, dal capoccia Rossi (Juan de Landa) che la prende con lui e lo multa per qualsiasi cosa, alla sua stessa età, che porta a problemi di vista e scatti d'ira. Fabrizi ci mostra il Mancini come un uomo orgoglioso del suo lavoro, che ne indica lo status sociale. Talmente ne è orgoglioso che quando vacilla la sua posizione da tramviere preferisce licenziarsi che fare il bigliettaio. Il film gioca sulla dinamica di potere e status sociale portato poi da un lavoro che non retribuiva chissà quanto, formando quindi una vera è propria lotta tra poveracci. Mancini viene rappresentato come un padre poco ragionevole, che risolve spesso con la violenza i capricci del figlio, mentre con la figlia più grande è molto meno severo, sebbene, ovviamente per il contesto storico, la spinge ad un classico ruolo di donna degli anni 50 (la iscrive addirittura ad un concorso dove le donne competono su mansioni casalinghe). Durante il film, Mancini prova a cambiare il suo comportamento burbero e spesso troppo scontroso, ma è chiaro che lui non ci stia veramente provando ed è pronto ad usare qualsiasi scusa per rispondere male a chiunque lo guardi male. Quello di Fabrizi quindi è un personaggio fanciullesco, la cui unica preoccupazione è l'orgoglio di avere un lavoretto sempliciotto e di apparire in modo "superiore" ad altri poveracci come lui. Mancini è la rappresentazione del comportamento di molti che ancora nella nostra società debbono far valere i loro status sociali per paura di non avere approvazione e cibare la propria necessità di superiorità. Per finire, la pellicola racconta anche la ignoranza di un popolo che diffida delle differenze culturali e "razziali" dei personaggi, il film è ambientato a Bologna, Mancini è di Roma e tenta di nascondere il suo accento il più possibile, sapendo di essere bersaglio di pregiudizi. Ma non è solo una vittima, infatti nonostante sia a Bologna da molto tempo rifiuta categoricamente che la famiglia, tutta di bolognesi osi parlare in dialetto, perchè lui non lo capisce essendo troppo ignorante e egoista da considerare i desideri altrui.

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7.5/10

SCIPIONE DETTO ANCHE L'AFRICANO | 1971             

Regia di Luigi Magni

 

E LI MORTACCI TUA CATONE!

Sarò onesto, ho visto questo film soltanto perchè ho letto che è di fatto l'unica opera in cui Ruggero Mastroianni, fratello di Marcello, invece di fare il montatore è attore, pure in un ruolo importante. Detto questo, ovviamente con Marcello M., Woody Strode e Vittorio Gassman non poteva essere un cattivo film e sento di non aver completamente torto.  Il film racconta le vicende dei fratelli Scipione, l'Africano e l'Asiatico (i fratelli Mastroianni), i quali vengono sottoposti a interrogatorio dal senato romano e da Catone il Censore (Vittorio Gassman). Magni ha giocato bene le sue carte, portando avanti sì un film sui romani, ma a modo suo: le inaccuratezze storiche sono all'ordine del minuto, e ci va bene! Se ne ricava una fantastica commedia all'italiana, in cui i romani sono dei beceri uomini, senza morali, con un accento romano molto pronunciato, il cui unico scopo è corrompere incorrompibile, ovvero Scipione l'Africano. La pellicola inoltre muove una forte critica alla patriottica rivendicazione della grande cultura romana, portando in discorso i modi barbarici con cui Roma si è appropriata della cultura altrui, facendola propria. Un plauso poi va alla scelta delle ambientazioni, che sono principalmente rovine romane, decisione che magari può sembrare strana, però, soprattutto per la storia che si racconta funziona. Le rovine simboleggiano la caduta morale dei governanti dell'antica città. La corruzione e il ricordo della grandezza imperiale romana è rappresentata da questi edifici. Se devo trovare un difetto al film, direi che l'accento romanaccio a volte diventa esageratamente sporco e parodistico, soprattutto messo in bocca a Woody Strode, che sì fa parte delle colonie romane, ma è comunque straniero. Appunto al reparto trucco e parrucco, siete riusciti nell'impossibile: rendere Marcello Matroianni brutto, cosa non facile.

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9.5/10

CHUNGKING EXPRESS (重慶森林) | 1994             

Regia di Wong Kar-Wai

 

SCATOLETTE ALL'ANANAS PER TUTTI!

Per il terzo film della ormai super positiva maratona di film di Wong Kar-Wai, Chunking Express prende i migliori aspetti di "In the Mood for Love" e "Fallen Angels" e li combina assieme. Questo film è iconico, in quasi ogni suo aspetto. Le storie d'amore che Kar-Wai porta sullo schermo sono sempre molto strane e coinvolgenti e questa forse ne è la più canonica rappresentazione. Seguiamo l'intreccio di due storie separate, che spaccano a metà il film, in cui due poliziotti (rispettivamente Takeshi Kaneshiro e Tony Leung) di Hong Kong si innamorano, il primo di una misteriosa donna (Brigitte Lin Ching-Hsia) coinvolta in traffici illegali e il secondo di un'altrettanto misteriosa ragazza (Faye Wong) che lavora in un ristorante take away. Come racconta la malinconia dei due agenti Kar-Wai, nessuno può. Entrambi sono uomini soli, delusi da se stessi e dalle relazioni passate, però lo spettatore oltre a provare compassione per loro, viene portato dal regista a ridere delle loro idee particolari su come superare le relazioni (Il primo decide di aspettare ad "andare avanti" per il mese successivo alla rottura, comprando ogni giorno delle scatolette di ananas con scadenza a fine mese, mentre l'altro parla con gli oggetti di casa, tentando di consolarli per la perdita emotiva). Tony Leung nel personaggio di "Polizziotto 663" mi è piaciuto molto, ha proprio la faccia da agente e ne prende i panni perfettamente. Devo inoltre fare una nota di merito all'affascinante Faye Wong e alla sua inconica danza, accompagnata da un'iconica (e a volume sempre più alto) "California Dreaming". 

CULT FAYE WONG

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9/10

FALLEN ANGELS (墮落天使) | 1995             

Regia di Wong Kar-Wai

 

"SONO UN TIPO PIGRO..."

"In the mood for love" mi è piaciuto così tanto che ho deciso di vedermi subito il giorno dopo anche "Fallen Angels". Non posso dire di esser rimasto deluso, mi sento anzi come un bambino che vede qualcosa di nuovo. Kar-Wai porta a differenza di "In the mood for love" ancora più scelte particolari, grandagoli, camera a mano, musica a tutto spiano e tanto per non farci mancare niente, decide di intrecciare due storyline, alternandole. Entrambe le storie vengono raccontate dal punto di vista di ogni personaggio/protagonista (per la prima sono due, per la seconda uno) e lo spettatore entra in contatto con essi, capendoli e apprezzandoli. Non ho saputo resistere poi alle sparatorie in purissimo Hong Kong style, che devono essere una delle forme di violenza artistica più affascinanti del cinema. Il film affronta svariati temi, passione, erotismo, affetto familiare, morte, esistenza. Lo fa quasi per intero utilizzando i monologhi interni dei personaggi, che si sfiorano per l'intera durata della pellicola. Come per "In the mood for love" la colonna sonora è calzante, anzi perfetta. 

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7/10

THE BRUTALIST | 2024             

Regia di Brady Corbet

 

LA LIBERTA' DI TRAVERSO

Partirei dal dire che sono rimasto sorpreso da ciò che Corbert è riuscito a portare sullo schermo, specie con il budget ridicolo con cui a girato: 9.6 milioni di dollari. Nonostante la cifra, non si trovano punti che risultano accusare delle risorse scarne e anzi risulta il contrario. Ho trovato la prima metà del film davvero straordinaria, sin dalla prima scena, dove Lazlo (Adrien Brody) arriva a New York. Credo fermamente che ci siano pochi film in cui effettivamente la prima parte mi ha emozionato e coinvolto molto più della seconda parte/epilogo. Purtroppo "The Brutalist" ha un calo di ritmo, di qualità del racconto abbastanza significativo. Non so spiegarmi dove la passione percettibile del primo tempo sia finita per il resto del film. Chi guarderà il film può confermare quanto bene venga sviluppato il personaggio di Lazlo nella prima parte, per poi essere un pò abbandonato. Ho sentito un pò di superficialità nel raccontare le vicende successive all'interruzione dei lavori del primo progetto del grande architetto. Nonostante si senta come il regista volesse raccontare il declinio emotivo e nervoso di Lazlo, questo risulta ben poco nella narrazione. Bella e emozionante la colonna sonora di Daniel Blumberg. Nonostante sia un inquadratura ora mai vista e rivista, Corbet riesce a mettere in scena in maniera originale la Statua della Libertà, e io questa cosa la apprezzo molto. Per finire, visto che il film ha deciso di trattare l'argomento geopolitico, personalmente non ho apprezzato le scene e i dialoghi sulla Palestina.

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9.5/10

IN THE MOOD FOR LOVE (花樣年華) | 2000               

Regia di Wong Kar-Wai

 

SLOW SHUTTER, FAST LOVE

Confesso che "In the Mood for Love" è la mia prima opera di Kar-Wai. Confesso inoltre di esser rimasto incredulo a ciò che per anni mi sono perso. Il film, racconta del rapporto che nasce tra due vicini di casa Chow Mo Wan (Tony Leung Chiu-Wai) e l'affascinante Mrs. Chan (Maggie Cheung Man-Yuk), avvicinati dal sospetto della relazione extraconiugale tra i rispettivi partner. I due personaggi vengono gestiti in modo favoloso, creando una strana forma di affetto, comprensione e infine di amore. Gli slow motion, slow shutter e movimenti di camera rendono il ritmo delle immagini sempre interessante e dinamico. La colonna sonora è forse una delle più belle che abbia mai sentito, e Wong Kar-Wai ne fa uso di quantità enorme, ma comunque ben equilibrato. Il risultato, è un film di grande profondità emotiva, che parla allo spettatore di un amore non voluto, rifiutato, ma inevitabile. Il signor Wan e la signora Chan si danno dei limiti per controllare la situazione, ma fin da subito è chiaro che lo stato emotivo di entrambi non farà rispettare le promesse. I due si trovano in balia di un destino, di emozioni che non possono controllare ma che disprezzano, non volendo loro stessi comportarsi come i rispettivi partner. Wong Kar-Wai racconta con tenerezza e comprensione la storia dei due vicini di casa. Per concludere, un film che mi ha stupito in ogni suo aspetto, la cui unica nota dolente, per me è il finale, che ho trovato un pò troppo allungato e meno coeso del resto della pellicola. 

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Valutazione: 3.75 stelle
4 voti

6.5/10

FITZCARRALDO | 1982                                                 

Regia di Werner Herzog

 

SE LA MONTAGNA NON VA DA FITZCARRALDO...

Nonostante gli aspetti folli di cui la produzione gode, il film in se, non entusiasma poi così tanto. La regia documentarista di Herzog regala momenti memorabili, a tratti terrificanti. Il punto debole è la trama, e le motivazioni di Fitzcarraldo, interpretato da Klaus Kinski. L'attore sia in scena, che fuori, da prova di essere veramente pericoloso e ingestibile, con frequenti scatti di rabbia e ossessione. Il pallino che Fitz ha per il teatro, sebbene venga sempre utilizzato come chiave durante il film, non provoca responsi emotivi nello spettatore rendendolo un futile motivo. Soprattutto Fitzcarraldo, il cui vero nome è Fitzgerald, non comunica affatto allo spettatore il suo delirio e questo indebolisce molto l'avventura, difatti in alcun momento mi sono trovato a sperare in un esito positivo, che sia per la storia in se o per i vari problemi che affronta Fitz coi suoi compagni. Il film, invece passa per una più superficiale critica sul delirio di onnipotenza di un uomo bianco, che non si fa problemi a sfruttare le popolazioni locali, arrivando a sacrificare alcuni individui per le sue inutili intenzioni. "Fitzcarraldo" fa di tutto per non renderti uno spigoloso complice di un uomo con la febbre dell'oro artistico, rendendo così la critica ben meno effettiva di ciò che sarebbe potuta essere.

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8/10

BREATHLESS (À bout de souffle| 1960                        

Regia di Jean-Luc Godard

 

QUANDO SI TROVA QUESTO ANTONIO?

Montaggio dinamico, sperimentale e battute taglienti rendono questo film un perfetto esempio di come una trama semplice, quasi inesistente possa tramutarsi in un cult. Michel Poiccard (Jean-Luc Belmondo) dopo aver ucciso un poliziotto si da ad una goffa fuga dalla legge, che consiste nel tornare a Parigi e riscuotere dei misteriosi soldi da un tale, Antonio Berruti (Henri-Jacques Huet). Nel mentre, oltre a continuare con la sua professione da ladro di automobili, Michel tenta di convincere l'americana Patricia Franchini (Jean Seberg) a scappare con lui a Roma. Patricia mi ha ricordato la donna del cinema di Antonioni, un personaggio perso nelle sue paure ed insicurezze, senza vi di scampo dalla propria angoscia di vivere. Il rapporto tra lei e Michel è fasullo e forzato quanto quello tra i personaggi di Alain Delon e Monica Vitti in "L'eclisse" (1962). Il loro è un amore che lo spettatore percepisce come superficiale, i due non comunicano nello stesso modo e non hanno interessi in comune. Poiccard è ovviamente un personaggio parodistico del "macho" dei film americani: un duro, che beve, fuma, va a letto con le ragazze e nasconde una drammatica mancanza di vitalità. Ho amato particolarmente alcune battute del film, che sono scritte veramente bene, rendendo il personaggio davvero interessante e a volte divertente, per esempio quando da in escandescenza e insulta il genere femminile senza alcun vero motivo. 

Alcune battute memorabili

 Patricia Franchini: Non so se sono infelice perché non sono libera o se non sono libera perché sono infelice.

Michel Poiccard: Se non amate il mare, se non amate la montagna, se non amate la città... andate a fanculo! 

Michel: Qualcuno deve averci visto assieme e ci ha denunciato…
Patricia: È molto brutto!
Michel: Cosa?
Patricia: Denunciare. Io trovo che è molto brutto.
Michel: Oh, è normale: i delatori denunciano, i ladri rubano, gli assassini uccidono, gli innamorati si amano…

Patricia: Signor Parvulesco, qual è la sua più grande aspirazione nella vita?
Scrittore Parvulesco: Divenire immortale, e poi... morire.

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Valutazione: 4 stelle
1 voto

8.5/10

ANORA | 2024                                                               

Regia di Sean Baker

 

RITMO, TANTO RITMO

Sono rimasto sorpreso dal film, avendo visto il trailer non mi aspettavo nulla di che, quasi una classica commedia insapore. Anora invece cambia tutte le carte del genere, tendendoti incollato allo schermo con ritmo incessante per ben 139 minuti. Scritti molto bene, oltre ad Anora, sono gli scagnozzi del padre di Ivan, il ragazzino russo immaturo. Toros, Garnik e sorprattutto Igor sono portati davanti allo spettatore come i classici mafiosi russi, ma poi, sono tutt'altro. Ognuno è caratterizzato in modo intelligente, dando una sfumatura a quello che solitamente è un ruolo che viene semplicemente categorizzato come "cattivone russo 1, cattivone russo 2 e 3". La scelta del regista Sean Baker di tenere un ritmo serrato durante tutta la durata del film rispecchia perfettamente l'animo di Ani (Anora) e gli eventi a cui prende parte. Lo spettatore con Ani si sente perso nelle varie azioni che le succedono, una dopo l'altra. La fotografia contempla perfettamente ambientazioni e stati d'animo, rendendosi spesso invisibile. Gli attori sono tutti all'altezza del loro ruolo, per dargli il miglior complimento, direi che sono tutti credibili.

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